sabato 30 luglio 2011

Calamandrei "da" Ernesto Maria Ruffini

Dai partiti ai movimenti e ritorno

In principio era la politica e con essa i partiti, quelli che venivano chiamati partiti di massa con i loro milioni di voti. Poi sono arrivate le masse da sole e i movimenti con i loro milioni di astensioni. E nel mezzo che è successo? Che fine ha fatto il ruolo dei partiti? E quale era questo ruolo? Se proviamo a domandarlo ai ragazzi nati dopo il 1989 non avremo risposte incoraggianti.
I partiti sono purtroppo percepiti come luoghi dove regna sovrana la casta per la tutela degli interessi di pochi privilegiati e i movimenti come l’unico modo che il popolo ha per far sentire la sua voce e per costruire il bene comune.
Ma è davvero così?
In realtà, nella mente dei nostri Costituenti, i partiti politici avrebbero dovuto essere il mezzo per consentire a noi cittadini di partecipare concretamente alla vita politica del Paese. Avrebbero dovuto essere, dovrebbero essere ancora – e per molti anni lo sono effettivamente stati – lo strumento di mediazione tra i cittadini e le istituzioni, per impedire qualsiasi forma di democrazia plebiscitaria, dove il popolo è chiamato ad occuparsi di politica solo in occasione del voto.
È nei partiti, quindi, che dovrebbero essere elaborate le domande che la società pone in continuazione. È nei partiti che dovrebbero essere raccolte le idee per organizzare una volontà comune attraverso i programmi elettorali. È «nei partiti che si preparano i cittadini alla vita politica e si dà modo ad essi di esprimere organicamente la loro volontà; è nei partiti che si selezionano gli uomini che rappresenteranno la nazione nel Parlamento» (Mortati). Perché i partiti «sono le fucine in cui si forma l’opinione politica e in cui si elaborano le leggi» (Calamandrei).
I partiti immaginati dai Costituenti, quindi, non erano solo il mezzo per selezionare la classe politica destinata a rappresentare e guidare il Paese, ma anche l’indispensabile strumento per favorire la dimensione sociale del singolo cittadino e il suo inserimento nel contesto che lo circonda, in modo da consolidare e favorire la maturazione della vita democratica e il confronto tra le diverse idee di società nella ricerca della sintesi dell’indirizzo politico del Paese.
Ed infatti, i partiti, «quando nacquero, dopo la insurrezione, erano pensiero, erano cultura, erano formazione, specie per i giovani, erano ricchezza di programmi, erano insegnamento di incrocio dialettico fra pensieri diversi. Poi, ci fu la degenerazione. Se ci sono, i partiti devono tornare con questa impostazione di alto profilo, devono aiutare ad elevare la politica» (Scalfaro).
Ma allora cos’è che non ha funzionato? In cosa sarebbe stata tradita la visione dei Costituenti? In cosa sarebbe stato tradito l’articolo 49 della Costituzione, dove è previsto che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la vita politica nazionale»?
Forse proprio in questo, nel “metodo democratico” che dovrebbe caratterizzare la vita di ogni partito.
Ora, coma allora, lo Stato non sarebbe realmente democratico se le decisioni politiche destinate ad influenzare la vita dei singoli cittadini venissero adottate all’interno di organismi per i quali non fosse garantita alcuna forma di democraticità interna e dai quali la stragrande maggioranza dei cittadini fosse estranea. Perché «se non vi è una base di democrazia interna, i partiti non potrebbero trasfondere un indirizzo democratico nell’ambito della vita politica del Paese» (Moro); perché «una democrazia non può esser tale se non sono democratici anche i partiti in cui si formano i programmi e in cui si scelgono gli uomini che poi vengono esteriormente eletti coi sistemi democratici» (Calamandrei).
Ma il metodo, oltre ad essere effettivamente democratico, deve anche essere percepito come tale. E troppo spesso la sensazione è che tutto sia invece deciso a tavolino da pochi e passivamente accettato da tutti gli altri. E questa legge elettorale, di certo, non ha aiutato. Anzi!
Una sensazione dettata anche dalla innata tendenza dei militanti di partito, specialmente nei partiti di sinistra, di fare comunque ritorno nella maggioranza interna, dopo aver esposto un timido o coraggioso dissenso. Come se l’essere minoranza in un partito – e in un Paese – non avesse diritto di residenza in democrazia; come se essere contrari fosse sconveniente; come se il confronto possa spingersi solo fino ad un certo punto.
Ed ecco, allora, che il dissenso esce dai partiti e si riversa nelle piazze, nelle masse, nei movimenti e nell’astensione dal voto.
Invece, dovremmo riscoprire il valore del confronto democratico. E proprio il Partito Democratico dovrebbe difendere il suo essere effettivamente tale. Ed ancora una volta, dovremmo porre attenzione ad una lezione che ci arriva da lontano, da uno di quei Costituenti, forse troppo frettolosamente archiviati come storia passata.
Qualche anno dopo l’approvazione della Costituzione, in occasione del dibattito parlamentare su una proposta di modifica alla legge elettorale, Calamandrei ebbe modo di sottolineare l’importanza di un partito in cui poter esprimere democraticamente anche il proprio dissenso. Perché «esponendo la nostra opinione contraria, noi non solo non intendiamo di mancare di rispetto o di fedeltà al nostro partito; ma anzi intendiamo di fargli onore, perché esso ci dà la possibilità di esprimere liberamente, direi quasi cordialmente, la nostra opinione, senza che per questo noi cessiamo di essere fedeli al nostro partito.  Il nostro partito è veramente un partito democratico. Esso, come tale, ha fede soprattutto nella ragione, nella persuasione. In questa possibilità di esporre onestamente diverse ragioni contrastanti, di lasciare che certe crisi di coscienza affiorino pubblicamente senza scandalo, consiste la forza democratica del nostro partito. Non invidiamo i partiti in cui crisi di opinioni come le nostre sono condannate a rimanere imprigionate e ad invelenirsi nel chiuso delle coscienze.
Il nostro partito ammette e rispetta la tormentosa eresia e l’onesto deviazionismo; non brucia gli eretici e non impicca i deviazionisti. Anche noi […] siamo mossi in questo nostro dissenso dal desiderio di contribuire a salvare la democrazia del nostro Paese. E quando parlo di democrazia, non tanto mi vengono in mente gli aridi meccanismi costituzionali intorno ai quali noi giuristi dissertiamo, o questa nostra aula dove discutiamo noi, uomini politici; quanto mi viene in mente il nostro Paese, il Paese vero, il Paese vivo, questo popolo vivo […], che lavora o vorrebbe lavorare e soffre e spera, e al quale la Costituzione ha assicurato una esistenza “libera e dignitosa”; questo popolo che vede la politica da lontano, forse senza rendersi conto della ragione di tanti dibattiti, di queste nostre discussioni che possono sembrargli logomachie; e che nella politica va in cerca di idee semplici per orientarsi e per capire: capire che cosa si faccia qui per lui, o che cosa, qui, contro di lui si trami» (Calamandrei).
Ecco, la soluzione è proprio questa. Per recuperare le masse, per evitare l’astensione, per coinvolgere i movimenti e per non tradire lo spirito dei Costituenti dovremmo difendere il valore del dissenso e del confronto, senza paura di sembrare quello che invece dovremmo essere orgogliosi di essere: democratici.
La strada? Il Partito Democratico l’aveva intuita, l’aveva tracciata. Ma non ha ancora avuto il coraggio di percorrerla tutta, fino in fondo.
La strada è quella delle primarie. Non il controsenso delle primarie aperte solo agli iscritti. Se le primarie sono un mezzo per coinvolgere i cittadini e se il Partito Democratico è formato anche dai suoi elettori e non solo dagli iscritti, limitare le primarie a questi ultimi sarebbe solo il maldestro tentativo di evitare il vero confronto. Il confronto con i cittadini.
Le primarie, anche quelle per le cariche interne di partito, dovrebbero essere aperte agli elettori del P.D., perché saranno loro ad avere l’ultima parola.
Organizzare il Partito tra di noi, come se non dovessimo mai confrontarci con gli elettori per la ricerca del bene comune non è un grande progetto. E solo la ricerca del bene comune può giustificare l’esistenza stessa di un partito. Ma la visione del bene comune non appartiene ad un solo partito e, tantomeno, alla maggioranza di un partito, ma appartiene a tutti e può emergere solo dal confronto tra tutti, dallo scontro delle opinioni di tutti e dalla ricerca di un bene davvero comune a tutti.

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